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Cesare Pavese: il ritorno impossibile dell’«uomo ambizioso»

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cesare pavese

Ricordiamo Cesare Pavese a distanza di 68 anni dalla sua morte, come un autore che ha saputo scuotere le coscienze di più generazioni – un evergreen si direbbe oggi – un grande classico della letteratura dall’eredità culturale imperitura.

Cesare Pavese. Un excursus storico letterario

Molti sono gli aspetti che hanno reso Cesare Pavese un autore tanto apprezzato, letto e studiato, non soltanto dal punto di vista strettamente letterario, ma anche e soprattutto dal punto di vista umano e culturale. La visione pavesiana della letteratura sarà senz’altro influenzata dai dolori di una vita vissuta nel tormento, dalla morte prematura dei genitori, dai difficili rapporti con le donne, dalla scoperta dell’America e della letteratura americana, dal rapporto ambivalente con il paese Santo Stefano Belbo e la città di Torino, nonché dal difficile rapporto con la guerra e con il Partito Comunista.

Sono questi i punti cruciali che si ritroveranno con grande chiarezza nel diario, in cui confluiscono le considerazioni personali, gli scrittori americani, l’interesse per la cultura del tempo, gli studi di antropologia e psicologia, nonché il marcato interesse per la classicità e il mito. È proprio ne Il mestiere di vivere e nell’epistolario che Cesare Pavese indica parte delle sue intenzioni in merito alle opere, «i consigli di tecnica» e le dichiarazioni di poetica, alcuni aspetti dettagliati sullo studio dei personaggi, lo stile che modula su di loro, nonché il rapporto con la rappresentazione del paesaggio, «il paesaggio interiore».

Città e collina: l’impossibile ritorno

Uno degli aspetti più manifesti della sua opera sembra essere il rapporto con il ritorno alle radici, ma spieghiamoci meglio: in Cesare Pavese, i personaggi paiono essere sospinti da una forza centripeta, che li induce alla fuga dal paese e poi al ritorno, senza tuttavia averne contezza; in entrambi i luoghi infatti l’uomo soffre alla stessa maniera e ricerca qualcosa di cui non conosce esattamente l’essenza.

La prima comparsa del tema del ritorno in Cesare Pavese è solitamente indicato in I Mari del Sud, la prima poesia di Lavorare stanca, nella quale già compaiono gli elementi caratteristici che diverranno costante nella produzione dello scrittore. Masin di Ciau Masino, ad esempio, si allontana da Torino non perché consapevole che l’ambiente collinare offra migliori possibilità di lavoro o successo, ma in quanto conscio del fatto che la campagna e la collina offrono lo stesso grado di insuccesso in un ambiente diverso.

I romanzi del ritorno per eccellenza sono disposti su un’asse che inizia con Paesi tuoi, passa per La spiaggia e La casa in collina e culmina ne La luna e i falò. Berto, Doro, Corrado e Anguilla intessono un rapporto molto intenso con il proprio passato, ritornandovi idealmente e concretamente. In Cesare Pavese chi ritorna lo fa perché oppresso dalla nostalgia e apparentemente desidera rivedere le persone e i luoghi da cui si è allontanato, ma in realtà, anzi spesso, si ritrova dinanzi a verità amare:

«Io pensavo alla stranezza della cosa: avevo i soldi
del viaggio e non lo facevo. Cominciavo a capire che
nulla è piú inabitabile di un luogo dove si è stati
felici»
La spiaggia

cesare pavese

Qui si nasconde, o si manifesta, tutto il fascino dell’opera di Cesare Pavese: si concreta tangibilmente il crudele fallimento di quell’impulso irrefrenabile che fa scaturire l’evasione, la fuga, e la disillusione amara della speranza di potersi acclimatare in un luogo estraneo alla ripetizione ciclica degli eventi. Si comprende cioè che le ingiustizie, la violenza, i soprusi rappresentano una condizione permanente a cui non è possibile sottrarsi, e pertanto la fuga e il ritorno paiono sempre impossibili.

La luna e i falò

L’ultimo romanzo di Cesare Pavese chiude il cerchio dell’impossibile ritorno: Anguilla fa ritorno negli Inferi del proprio passato e, a differenza de La casa in collina, è il passato a essere popolato dai morti, non solo il presente. Il passato di Anguilla, il quale non ha un nome né delle origini, si dissolve nel falò tragico che irrompe nelle ultime pagine del romanzo, da cui sembra riecheggiare l’urlo di un’assenza. La catastrofe obbligata del destino che fatalisticamente si ripresenta uguale incombe su molte figure del romanzo, dal paese natio all’America, alla stregua di una profezia che si autoadempie: si constata, in altre parole, che nessun Eden è possibile, nessun luogo geografico o temporale è davvero vergine e incontaminato.

Si concreta tangibilmente il crudele fallimento di quell’impulso irrefrenabile che fa scaturire l’evasione, la fuga, e la disillusione amara della speranza di potersi acclimatare in un luogo estraneo alla ripetizione ciclica degli eventi. In Cesare Pavese le ingiustizie, la violenza, i soprusi rappresentano una condizione permanente a cui non è possibile sottrarsi, e pertanto la fuga e il ritorno paiono sempre impossibili.  Converge qui il valore testamentario dell’opera di Cesare Pavese: i fuochi che irrompono e divampano rigenerano vita ma non promettono sogni.

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