Chi ha seguito le mie ricerche sullo zafferano ha certamente notato la mia predilezione per gli eventi e le esperienze di alcuni secoli fa. Sono affascinato dai sassi (i fatti) che, lanciati nello stagno della nostra storia, hanno prodotto le onde che sono arrivate fino a noi, qualche volta sotto forma di volumi dedicati al mecenate di turno, altre volte come preziosi ricettari.
Nel caso della storia dello zafferano, le onde sono più increspate del solito: ci sono antiche tradizioni dimenticate e poi riprese, sono anche intervenuti aspetti insoliti che hanno generato variazioni nelle coltivazioni locali, legate a super produzioni dovute all’impiego di terreni residui (inutilizzabili per altre coltivazioni). Un ulteriore contributo è venuto dall’integrazione e sovrapposizione dell’uso dello zafferano con le culture delle zone di produzione che a volte hanno origini che si perdono nei secoli.
Lo zafferano negli antichi ricettari
I più antichi ricettari che parlano dello zafferano sono quelli attribuiti ad Apicio, in realtà i filologi hanno scoperto che i ricettari attribuiti ad Apicio sono un’opera collettiva, e risultano raccolti ed arricchiti fino al quarto secolo dopo Cristo. Sappiamo che Apicio era, all’inizio del primo secolo, un senatore romano rampollo di una ricchissima famiglia. In quegli anni lo scanno di senatore romano era legato al censo, quindi il posto di Apicio non era certo dovuto ai suoi meriti. Marco Gavio Apicio era sicuramente un buongustaio e un patito di un particolare vino passito, “apicius”, al punto che nell’antica Roma “Apicio” divenne sinonimo di ghiottone. La stessa dimensione fisica di Apicio lo rappresentava come tale, sembra che pesasse quasi due quintali: il nome Apicio rimase sinonimo di “mangione buongustaio” per almeno due secoli anche dopo la sua morte (gli studiosi hanno trovato almeno altri due Apicio che hanno arricchito il ricettario).
Il primo Apicio era uno spendaccione, al punto che sembra abbia armato una flotta di navi solo allo scopo di andare di fronte alle coste libiche per gustare alcuni particolari crostacei: anche per i romani straricchi una cosa del genere era una pazzia. Quando il liberto che amministrava i suoi possedimenti riferì a Marco Gavio Apicio che erano rimasti da spendere solo dieci milioni di sesterzi, Apicio si suicidò. Se siete curiosi potrete verificare che, nel primo e nel secondo secolo d.C. (considerando solo i generi di prima necessità), un sesterzio aveva il potere di acquisto degli attuali due Euro. Secondo Seneca, che era contrario agli eccessi, la migliore ricetta preparata da Apicio fu appunto quella che egli stesso preparò per uccidersi. Nel ricettario di quasi 500 preparazioni attribuite ad Apicio lo zafferano, che nel ricettario viene chiamato “croco”, è citato una decina di volte. Due di queste citazioni sono rimedi sanitari e servono per far stare meglio chi ha dei problemi di stomaco, una citazione indica nello zafferano un condimento con cui correggere il sale usato per cucinare. Alcune ricette si riferiscono a salse in cui la spezia è usata principalmente come colorante. Un particolare uso è indicato per aromatizzare una specie di vermut usato nell’antica Roma. Sempre nel primo secolo anche Svetonio, nelle sue “Vite dei Cesari”, nella parte dedicata a Nerone, parla dello zafferano, o meglio del croco, come omaggio fatto all’imperatore al suo passaggio.
Gli antichi ricettari italiani
Nel tardo periodo medioevale (tra
il 1380 e il 1490) vennero compilati, da cuochi rimasti anonimi, un paio di
ricettari regionali (uno in Toscana e uno in Veneto). Nel 1460 viene stampato
il “Libro De Arte Coquinaria composto per lo egregio Maestro Martino coquo olim
del Reverendissimo Monsignor Camorlengo et Patriatrca de Aquileia”, che è il testo
da cui riporto un certo numero di ricette che impiegano zafferano. Il testo era
scritto in volgare e pochi anni dopo (nel 1475) l’umanista Bartolomeo Sacchi,
detto “il Platina” lo trascrisse in latino, aggiungendo regole di vita e
consigli. Il libro “De honesta voluptate et valitudine vulgare” è l’opera per
cui ancora oggi ricordiamo il Platina: in questo volume lo zafferano viene
citato 42 volte, principalmente come colorante per migliorare l’aspetto delle
pietanze. Il Platina ha avuto il merito
di far conoscere nelle corti dei nobili le ricette popolari, però ha decisamente
messo in ombra il lavoro di Mastro Martino.
Le ricette nell’età moderna
Nel 1600 e nel 1700 l’editoria “moderna” produce decine di edizioni di libri sulla cucina italiana, questi libri a mio parere sono scritti con un linguaggio ormai comprensibile e contengono centinaia di informazioni. Ora nel web è possibile trovare scansionati molti dei testi più importanti, infatti sono molte le biblioteche universitarie o i privati che offrono questo “servizio”. Per la cucina italiana, se volete leggere tutte le ricette, e non solo una piccola selezione basata sulla mia curiosità intorno allo zafferano, potrete trovare i testi sul sito di Candida Martelli.
Alcune ricette del Mastro Martino
Come ho più volte ricordato, non
ho intenzione di riproporre uno dei soliti aggregati, più o meno omogenei, di
ricette. Tuttavia è indubbio che le ricette sono l’esempio di come la spezia
sia penetrata nelle nostre cucine ed arrivata sulle nostre tavole. Cercherò
quindi di trovare e proporvi delle ricette significative, cercando, dove
possibile, di trovare la storia o la ragione della ricetta. Vi propongo le
ricette nella forma linguistica in cui le ho trovate.
Le prime due mostrano l’importanza del “colore giallo” delle pietanze:
Dalle ricette che seguono emerge
un uso di grassi che oggi definiremmo eccessivo, dobbiamo ricordare che queste
non sono le ricette per tutti i giorni, e che la gotta era una malattia diffusa
tra i frequentatori di quelle tavole.
Quando ho letto la ricetta della
“suppa dorata” e delle frittelle a forma di pesce, mi sono venuti in mente i
dolci orientali e i piatti esotici, in cui la forma della pietanza è spesso
ingannevole.
Anche Mastro Martino insegna
nelle sue ricette a fare le salse e le gelatine da usare sulle carni e sui
pesci: questi composti, oltre a decorare la pietanza, servivano anche per
conservare prodotti deteriorabili sotto forma di gelatina, che all’occorrenza
poteva essere trasformata nuovamente in brodo.