Non ne resta poi molto: le basi, la pianta e alcune statue, il più delle quali mutile di testa e braccia, eppure la casa delle Vestali spicca per leggiadria e per il senso di concentrata serenità che trasmette al visitatore. A due passi dal tempio circolare di Vesta, dea di quel fuoco che era l’anima divina e la matrice femminile della città, era la residenza di un gruppo di donne che, sin da bambine e per trent’anni, prestavano servizio come custodi del fuoco sacro che teneva viva Roma.
La storia travagliata di una dimora antichissima
L’edificio dove si svolgeva la vita quotidiana di queste donne aveva un piano terra e un primo piano, la forma in cui ci è giunto risale in particolare a due restauri: quello avvenuto dopo l’incendio del 64 d.C. e quello voluto da Giulia Domna, consorte dell’imperatore Settimio Severo, per riparare i danni di un altro grave incendio, avvenuto nel 191 d.C. Ma, in base a quanto suggeriscono degli scavi del celebre archeologo Andrea Carandini, in quell’area sorgeva già in età regia un recinto collegato al tempio della dea. Come in una grande ed elegante domus, al centro dell’edificio c’era un cortile aperto, dove sorgevano tre bacini d’acqua: i due più piccoli, di forma quadrata, alle estremità, e uno più lungo, rettangolare, al centro. Ai lati, sia al piano terra che al piano superiore, vi erano le stanze private, le cucine e i bagni che erano riscaldati tramite tubature e sfoghi delle stufe all’interno delle intercapedini. Vi era anche un piccolo mulino. Insomma, una sorta di convento dove la comunità di donne viveva, godendo di potere e autonomia, a patto di seguire regole sacre per la sopravvivenza e la prosperità dell’Urbe.
Vita da Vestale: onori e oneri per le sacerdotesse vestite di bianco
Il cortile della casa era circondato da un portico, dove erano poste le statue delle Vestali Massime. Ne abbiamo rinvenute molte: erano accatastate da un lato, probabilmente destinate a diventare calce e, chissà come mai, risparmiate. Le statue meglio conservate sono state trasportate nel museo delle Terme di Diocleziano, le altre sono state ridisposte dove vi era il portico, ma in ordine casuale. Abbiamo un’idea dell’aspetto di Terenzia Rufia, Flavia Mamilia, Campia Severina, Coelia Concordia, protette tra le mura del museo, ma anche di Numisia Maximilia, Terentia Flavola, Flavia Publicia e Coelia Claudina. E possiamo dire qualcosa sulle loro vite.Per trent’anni erano obbligate alla verginità e alla custodia del fuoco sacro. Poi, se ancora in vita, libere dal vincolo potevano sposarsi. Poteva accadere: entravano nel collegio molto piccole e, considerando che la principale causa di morte per le donne era il parto, arrivare a 35 – 40 anni non doveva essere impossibile. I pretendenti, magari non gli aristocratici bisognosi di abbondante prole ma gli arricchiti in cerca di legittimazione sociale, non mancavano: la vestale manteneva il suo prestigio per sempre. Le loro figure suscitavano rispetto e ammirazione: avvolte da un abito sacerdotale di lana bianca, portavano a vita la complessa acconciatura delle spose coperta da un velo e arricchita con capelli posticci e nastri rossi.
La fine dell’ordine delle Vestali: si spegne il fuoco, tramonta un mondo
Avevano piena capacità giuridica, potevano spostarsi in lettiga, concedere la grazia ai condannati e altri privilegi ancora. Ma il destino che spettava alla vestale colpevole di aver fatto spegnere il fuoco o di aver perso la verginità era terribile: veniva murata viva in un tomba, con un lume, un po’ d’acqua e di cibo. Accadde, sì.
Il fuoco sacro di Vesta arse per circa un millennio, nel 391 d.C. Teodosio, con l’editto di Tessalonica che vietava il paganesimo, ne ordinò lo spegnimento. Le ultime vestali abbandonarono tristemente la loro dimora che, in seguito, venne occupata dalla corte papale. Fu l’offesa più grande per una cultura che affondava le sue radici nelle origini indoeuropee delle popolazioni italiche. Senza il fuoco sacro, Roma si scoprì all’improvviso nel buio. Furono necessari secoli per ritrovare la luce.
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