Inizia la sua carriera dalla parte sbagliata, quella perdente, ma il suo talento letterario, il suo buonsenso e un pizzico di fortuna ne faranno una delle voci dell’impero di Augusto. Parliamo di Orazio, il poeta padre della massima carpe diem. Cogli ciò che offre ogni singolo giorno, strappalo al flusso della vita e non fidarti del domani. Orazio però ce lo dice con serenità, frutto di una saggezza conquistata amaramente. Non è un ammonimento severo, il suo. Nessun dito puntato. Il suo verseggiare è sempre sorridente, luminoso, pacifico, così come il suo pensiero.
Tu non chiedere, è vietato sapere, quale fine a me, quale a te
gli dei abbiano assegnato […]
Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile,
il tempo: cogli il giorno, il meno possibile fiduciosa in quello successivo.
La prima parte della vita di Orazio
Quinto Orazio Flacco nasce a Venosa, nel territorio dell’attuale Basilicata, nel 65 a.C. La sua famiglia ha origini umili ma ha raggiunto un più che dignitoso benessere grazie al lavoro. Così il giovane Orazio studia in Grecia e in Italia; entra in contatto con i circoli epicurei, dei quali apprende i suggerimenti per la ricerca della serenità, interiorizza la lezione e la fa sua, a modo proprio. Perché Orazio del tutto sereno non fu mai: una volta che hai visto la morte in faccia, puoi curarne la paura ma, in fondo, resta in te. Orazio, infatti, durante le guerre civili successive alla morte di Cesare, si arruolò nell’esercito di Bruto e combatté nella battaglia di Filippi nel 42 a.C. Come andarono le cose, lo sappiamo tutti: l’esercito dei cesaricidi subì una sconfitta disastrosa, che mise fine al sogno di una restaurazione repubblicana e aprì un nuovo capitolo nella storia di Roma. Orazio era stato un combattente valoroso al punto che, pur essendo figlio di un liberto, aveva fatto carriera militare. L’esperienza della disfatta fu devastante: un altro poeta avrebbe visto la fuga e l’esilio come un atti di ribaldo amore per la vita. Per Orazio fu un dramma senza pari, che segnò la fine della giovinezza e la consapevolezza del dramma che incombe su di noi: le sorti si rovesciano in un attimo.
Dal rovescio di fortuna al successo
Il suo esilio, per fortuna, dura solo un anno, grazie a un’amnistia. Orazio torna in Italia e si trova a fronteggiare una situazione economica delicata, visto che le ricchezze di famiglia sono state confiscate. Diventa così segretario di un questore per potersi mantenere e nel tempo libero scrive versi. Sono belli, piacciono e, nel giro di poco tempo, arrivano tra le mani di Mecenate. Vero talent scout e comunicatore, Cilnio Mecenate era il direttore di quell’orchestra che dava voce al nascente principato: studia per mesi questo giovane di Venosa e poi, su intercessione di Virgilio che aveva conosciuto Orazio nei circoli epicurei, lo ammette al proprio. Da allora Orazio vivrà di poesia. Niente moglie, niente figli, tanto amore per la campagna e un problema alla vista che funesterà la sua esistenza: questa sarà la vita di Orazio. Nel giusto mezzo, tra luci e ombre.
Il pensiero di Orazio: l’aurea mediocritas
Perché la via per godere della nostra unica certezza, ossia la vita, per Orazio è proprio l’aurea mediocritas, ossia una sana via di mezzo, un saggio equilibrio distante da eccessi ed entusiasmi. Le delusioni e le difficoltà che Orazio ha affrontato traspaiono nelle venature di amarezza che, però, rendono solo più viva e vibrante la luminosità della sua poesia. È il chiarore dell’alba, piacevole, non accecante e consapevole che la propria bellezza soave sta nella breve durata che già prelude al tramonto.
… Chiunque ama l’aurea via di mezzo,
sicuro sta lontano dallo squallore d’una casa troppo vecchia,
sobrio sta lontano da una reggia oggetto d’invidia.
Un alto pino è più spesso scosso dai venti
e le alte torri cadono con crollo più rovinoso
e i fulmini colpiscono le cime dei monti.
Un cuore ben preparato spera una sorte diversa
nelle situazioni ostili e la teme nei momenti lieti.
Se nelle Odi Orazio usa uno stile più elevato, in altri componimenti ne sceglie uno volutamente dimesso ma elegante, curato nella sua semplicità.
L’umanità di un poeta gentile
Orazio è un osservatore curioso, critico senza acredine, divertito quando è il caso: lo vediamo nelle Satire e nelle Epistole che ci sono giunte. È delizioso e meritatamente noto il racconto del suo imbattersi in un seccatore che cerca in tutte le maniere di attirare l’attenzione del poeta sulla propria produzione letteraria, mentre il povero Orazio sta camminando per fatti suoi. Sfido chiunque a sostenere di non essersi mai trovato in una situazione sociale – o social! – analoga.
Abbasso le orecchie, come un asinello dall’animo rassegnato
quando si sobbarca sul dorso un carico alquanto pesante.
C’è tanta umanità, in Orazio, una pacatezza gentile, a volte dolce, a volte amara. Un perfetto bilanciamento che lo rende un antidoto contro tanti mali, inclusi quelli della vita moderna. Epicureo plaude e noi, a distanza di secoli, ne godiamo.