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Migrazioni e cambiamento climatico: breve storia del mondo dai Dori a Carola Rackete

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migrazioni rifugiati

Il peggio deve ancora venire. Affrontare in maniera semplicistica il problema delle migrazioni – non definirlo problema è mancanza di onestà intellettuale verso tutte le parti coinvolte, dal dramma di chi fugge alle difficoltà di chi raccoglie e poi accoglie – non porterà una soluzione, anche perché con sempre più prepotenza sta entrando in gioco un fattore che scardina dall’alto gli equilibri economici e geopolitici del pianeta: il cambiamento climatico. Migrazioni di popoli si sono succedute più volte nella storia. Più il sistema sociale è complesso, più il fenomeno è articolato, ma si potrebbe quasi dire naturale, un meccanismo inevitabile su scala planetaria. Il che non vuol dire che non vada affrontato con razionalità e realismo, ma significa che è necessario riportarlo al suo significato contingente e considerarlo anche un banco di prova per ciò che, se non facciamo nulla, avverrà.

Le crisi climatiche e migratorie del mondo antico

Iniziamo con il raccontare cosa successe intorno al 1.200 a.C. nel Mediterraneo. Abbiamo varie società stanziali complesse, che nessuno giudicherebbe primitive rispetto a noi. Non tecnologiche, conveniamo, ma assolutamente evolute. Ebbene, a un certo punto tutte le civiltà del mediterraneo attraversano una forte crisi. Miti che parlano di catastrofi naturali e guerre si concentrano in quel periodo. Qualcosa ha inciso sull’ecosistema e le popolazioni del nord, i Dori, migrano verso sud. È l’epoca della distruzione di Troia VII – la città cantata da Omero aveva una passione per farsi radere al suolo – di Ramesse II contro gli Ittiti. Avviciniamoci nel tempo: nel 536 d.C. una fortissima eruzione vulcanica avvenuta in Islanda sparò una colonna polveri nel cielo d’Europa. Il clima rimase pesantemente alterato per un anno e mezzo, ne scaturì una carestia e i popoli, già fiaccati dalle guerre e in estremo movimento sul territorio, furono colpiti dalla peste detta “di Giustiniano”, che fu la pietra tombale su ciò che restava della civiltà romana. Non sono belle prospettive, vero? In entrambi i casi, vediamo un evento naturale che cambia le carte in tavola. Le popolazioni più vulnerabili si spostano, cercando di sopravvivere. Perché lo squilibrio dell’ecosistema ha reso fragile l’intera società.

La Great Famine irlandese: un parassita e la politica creano un milione di migranti

Andando avanti nei secoli, vediamo come la politica e l’economia, unite all’impatto antropico, peggiorino gli esiti di un evento legato all’ecosistema. Parliamo della Great Famine, la carestia che piegò l’Irlanda tra il 1845 e il 1849. In questo caso, bastò una malattia delle patate, su cui si basava l’alimentazione irlandese, a squilibrare del tutto la società. I rapporti economici con l’Inghilterra rendevano proibitivo il costo degli altri alimenti, che continuavano a essere esportati, e le dottrine economiche in voga non prevedevano l’intervento delle istituzioni. Vi ricorda qualcosa? Risultato: un milione di morti per fame, altrettanti emigrati in Gran Bretagna e Nord America per salvarsi la vita, città spopolate, economia a lungo compromessa.

Siria, siccità, guerre e migrazioni

E avviciniamoci ai nostri giorni, guardando a volo d’uccello la Siria. Già nel 1975 la costruzione di dighe in Turchia ha ridotto del 40% la disponibilità d’acqua. Le politiche agricole siriane sono rimaste datate: si basano su un’irrigazione dispersiva, che depaupera le falde, costa molto e rende poco per via dell’evaporazione. Tra il 2006 e il 2011 la Siria ha affrontato una drammatica siccità, per più anni e per più periodi nello stesso anno, definita da Gary Nabhan causa della “più grave serie di perdite di raccolto da quando, millenni fa, è fiorita la civiltà nella Mezzaluna Fertile”. La situazione sociale, già precaria, è peggiorata: siccità e carestia hanno spinto masse disperate a inurbarsi, contribuendo al deterioramento delle strutture sociali e alle esplosioni di  violenza. Cos’è successo dopo, lo sappiamo. È stata colpa della siccità anomala? Anche.

Il cambiamento climatico nell’africa sub-sahariana: squilibri e migrazioni

E veniamo all’Africa. Molti migranti che oggi solcano il Mediterraneo sono originari dell’Africa sub-sahariana, una zona emblematica per l’impatto dei cambiamenti climatici su realtà già fragili. Il riscaldamento globale, lì, picchia più duro. Nell’ultimo decennio le popolazioni hanno fronteggiato frequenti perdite di raccolti e greggi, con conseguente spopolamento delle zone rurali e smarrimento delle competenze culturali tradizionali. Che, pur fungendo da enclave all’avanzata del deserto, non sono sufficienti. Ci sono danni legati al cambiamento climatico che possono essere mitigati e altri, invece, che potrebbero essere procrastinati tramite un grosso sforzo tecnologico ed economico. Quindi, cosa succede? Il cambiamento climatico, combinato con problemi sociali e politici e ritardi tecnologici, sporca e rende potente la bomba sociale della povertà e della vulnerabilità.

Prospettive e auspici in tema di clima e migrazioni

E allora, cosa facciamo? Come si può aiutare “a casa sua” chi ha visto la propria dimora diventare inabitabile? Ammazzare tutti non è una soluzione geniale, visto che ampie fette del sud Italia sono a rischio di desertificazione: saremo ancora italiani prima, allora? Dobbiamo porre la cura del pianeta, la nostra unica casa nell’universo, come priorità assoluta. Solo così potremo progettare un futuro per tutti. Bisogna rendere redditizie forme di economia ecocompatibili, che valorizzino, tutelino e proteggano i territori a rischio. Investire sulla tecnologia, perché la ricerca scientifica applicata è un valore economico di per sé, perché rende più produttive e competitive le aziende di ogni dimensione, minimizzando il loro impatto ambientale. Certo è che se il clima si scatena, siamo tutti inermi, sia dalla sua furia che dalle sue conseguenze economiche, politiche e sociali. E nessun capitano, di qualsiasi sesso, potrà salvarci.

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