Il Mekong è a rischio. Il Laos frena sulla costruzione dell’ennesima diga sul fiume; ma per popolazioni locali ed ambientalisti non c’è nulla da festeggiare.
Il Mekong è a rischio
Il Mekong è il fiume più importante dell’Indocina e uno dei maggiori dell’Asia. Il Mekong è l’undicesimo fiume più lungo al mondo (ca. 4880 Km) il cui corso si snoda dall’altopiano del Tibet sino al Vietnam. Il Mekong è il più vasto bacino pescoso di entroterra d’acqua dolce al mondo che nutre secondo le stime più di 60 milioni di abitanti che ne abitano le rive e che beneficiano non solo della sua ricchezza di pesce ma anche delle sue periodiche inondazioni, fondamentali per il mantenimento del suo ecosistema e per la fertilità delle pianure che lo affiancano. Il Mekong produce secondo le stime ufficiali una ricchezza pari a circa 3 miliardi di dollari all’anno. Il Mekong è il secondo bacino idrico al mondo per biodiversità delle proprie acque, secondo soltanto al Rio delle Amazzoni.
A minacciarlo… le dighe
A minacciarlo è un imponente piano di costruzione di dighe lungo il suo corso meridionale, quello che dalla provincia cinese dello Yunnan si sviluppa sino al delta in Vietnam. Non che il corso settentrionale se la passi meglio: la Cina, senza interpellare i propri “vicini” meridionali e senza alcuna condivisione degli studi sull’impatto ambientale ha già costruito 6 mega-dighe sul Mekong (che in territorio cinese prende il nome di Lancang) e ne ha già iniziate e/o messe in programma altre 14 da completarsi nei prossimi 5/10 anni. L’intraprendenza cinese ha già causato molti problemi al fiume e agli abitanti che ne dipendono: più di centomila persone sono state sfollate a causa della costruzione delle dighe, la maggior parte delle quali appartenenti a minoranze etniche
Le dighe Don Sahong e Xayaburi
Le minacce al corso settentrionale rendono ancora più pericolosi gli interventi pianificati da Cambogia, Laos e Thailandia lungo il corso meridionale del fiume per un totale di 11 dighe. In questo caso lo stato più “attivo” è senza ombra di dubbio il Laos, all’interno del cui territorio dovranno sorgere la maggior parte delle summenzionate dighe. L’intraprendenza laotiana ha però urtato i restanti paesi rivieraschi.
Nel 1995 tutti gli stati attraversati dal corso meridionale del fiume Mekong ad eccezione della Birmania (che insieme alla Cina ha scelto lo status di “dialogue partners”) ovvero Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam hanno siglato il “Mekong Agreement” con il quale è stata istituita la Mekong River Commission (MRC), un’organizzazione intergovernativa che si propone di “promuovere e coordinare uno sviluppo ed una gestione sostenibile delle risorse idriche (del fiume) e di quelle ad esse collegate per il comune beneficio delle nazioni e per il benessere delle popolazioni”.
Secondo l’articolato dell’accordo però ogni intervento sul naturale corso del fiume, prima fra tutti dunque la costruzione di una diga, deve essere sottoposta alla MRC per “consultazioni preliminari” che portino ad un accordo condiviso sull’intervento, nell’ottica di tutelare i diritti degli altri stati rivieraschi e delle loro popolazioni; si esplicita però che tali consultazioni non potranno dare luogo né ad un veto da parte degli altri stati né ad una decisione unilaterale a procedere.
Il Laos ha deciso di prendere alla lettera questa esplicita “neutralità” della disposizione già nel 2011 quando al termine delle consultazioni preliminari che evidenziavano la necessità di ulteriori accertamenti e studi sugli effetti della costruzione della diga Xayaburi ha annunciato che avrebbe comunque messo in piedi l’infrastruttura, i cui lavori sono regolarmente iniziati l’anno successivo fra un’ondata di proteste delle popolazioni locali, dei governi degli altri paesi rivieraschi e delle associazioni ambientaliste. Il fatto ha costituito un importante precedente e non a caso nel 2013 per la costruzione della diga Don Sahong, sempre in territorio laotiano al confine con la Cambogia, il governo di Vientiane si è limitato a notificarne la costruzione alla MRC un mese prima dell’annunciato inizio dei lavori senza intraprendere le previste consultazioni preliminari.
Quali sono i rischi?
Come riportato in apertura, il Mekong costituisce una risorsa fondamentale per la sussistenza e per l’economia di circa 60 milioni di abitanti ed una altrettanto impareggiabile “riserva” di biodiversità ittica. Secondo una “contro-valutazione di impatto ambientale” stilata dal WWF-Cambodia, la costruzione della diga Don Sahong bloccherà il canale di Hou Sahong, la sola via annuale per la trasmigrazione dei pesci nel Mekong; non è necessario essere esperti internazionali di migrazione ittica per carpirne le devastanti conseguenze per l’ambiente e per le popolazioni che fanno della pesca (sostenibile) il proprio pane quotidiano.
A farne le spese irrimediabilmente, secondo un altro studio del WWF, potrebbe essere il delfino di Irrawaddy o orcella asiatica, incredibile delfino che abita le coste, gli estuari ed il corso di alcuni fiumi nel Sud e Sud-est asiatico; ad oggi si calcola che nel Mekong ne siano rimasti meno di 100 esemplari costretti in un tratto di 190 Km. La costruzione della diga Don Sahong, proprio in questo tratto di fiume, richiederà l’estrazione di milioni di tonnellata di roccia con esplosivi le cui onde sonore potrebbero uccidere i delfini, i cui apparati acustici sono altamente sensibili; se a ciò si unisce l’aumento della navigazione e il cambiamento nella qualità dell’acqua, con conseguente degrado dell’habitat, lo scenario non appare dei migliori.
Le reazioni
Le popolazioni locali, le associazioni ambientaliste e le ONG presenti sul territorio stanno dando battaglia da tempo con manifestazioni, studi scientifici, campagne di sensibilizzazione, petizioni e raccolte di firme, lettere ai governi e richiami alla comunità internazionale.
Nelle ultime settimane alcune vittorie sono state messe a segno: lo scorso 26 giugno il governo del Laos ha accettato di sottomettere il progetto della diga Don Sahong alla MRC per le consultazioni preliminari previste dal Mekong Agreement; due giorni prima una corte thailandese ha deciso che accoglierà il ricorso presentato nel 2012 (rispetto al quale si era precedentemente dichiarata incompetente) da 37 abitanti di un villaggio thailandese lungo il fiume Mekong contro un accordo siglato dal governo di Bangkok con il Laos per l’acquisto del 95% dell’energia prodotta dalla diga di Xayaburi una volta ultimata.
Se da un lato è chiaro come questi due avvenimenti siano segnali importanti per il futuro del fiume Mekong e per una più ampia condivisione delle scelte che ne riguardano l’utilizzo, è tristemente altrettanto chiaro come si tratti di vittorie di Pirro. Il passato ha insegnato che le consultazioni preliminari in seno alla MRC non sono sufficienti a bloccare la costruzione di mega-dighe; non a caso molti osservatori vedono nel gesto accondiscendente del governo laotiano in merito alla diga di Don Sahong un modo per prendere semplicemente tempo e, nonostante le smentite, continuare i lavori.
Così come la decisione della corte thailandese di accogliere il ricorso degli abitanti del villaggio non assicura un esito favorevole che comunque, qualora arrivi, non pregiudicherebbe il completamento della diga di Xayaburi, sebbene ne minacci seriamente il finanziamento. In più i piani settentrionali cinesi e quelli ancora in piedi nel meridione non lasciano troppe speranze per un lieto fine.
Il destino del fiume Mekong e dei suoi abitanti, sia dentro che fuori le proprie acque, è ancora tutto da scrivere.
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