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Greenwashing: come il mondo delle imprese inganna il consumatore

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pennelli e vernici

In quella che Bauman definisce la società dei consumi, votata al dominio della merce sull’uomo e al dilagante bisogno dell’individuo di definirsi attraverso ciò che possiede, comincia piano piano a farsi strada una nuova prospettiva, quella della sostenibilità.

Sono sempre di più le persone che decidono di fare acquisti consapevoli, che rispettino l’ambiente e che ne preservino le risorse. Inoltre, gli Stati cominciano a imporre norme a tutela dell’ambiente e a vincolarne l’uso. All’interno di questa cornice, il mondo delle industrie comincia ad adattarsi a questi cambiamenti.

Nonostante le aziende green siano numerose, vi sono molte altre realtà che invece sfruttano a loro vantaggio la sostenibilità. L’attività che caratterizza questo procedimento è quella del greenwashing.

Cos’è il greenwashing

Questo termine è stato coniato nel 1990 quando alcune tra le più inquinanti imprese americane (per nominarne alcune: DuPont, Chevron, Bechtel dell’American Nuclear Society, e la Compagnia di Plastics Industry) hanno cercato di spacciarsi come eco-friendly in una fiera che si svolgeva a Washington, senza realmente essere tali.

La parola greenwashing è il risultato della combinazione di due parole: green, ovvero verde in termini ecologici, e whitewashing, l’attività di nascondere fatti spiacevoli; quindi, attraverso questa combinazione si vuole indicare la tendenza di molte aziende di proclamare presunti comportamenti sostenibili in modo tale da ottenere un maggior profitto andando ad attirare l’attenzione di quella fascia di consumatori attenti alla salute del pianeta.

Per questa ragione, il greenwashing è una forma di pubblicità ingannevole che le aziende utilizzano con il solo scopo di trarre un beneficio economico, senza fare realmente nulla di concreto nei confronti della tutela ambientale.

Le aziende che utilizzano l’operazione di greenwashing spendono più tempo e denaro nel proclamare il loro “essere verdi” attraverso pubblicità e azioni di marketing, piuttosto che nell’implementare realmente pratiche a basso impatto ambientale.

Le pratiche che molto spesso vengono utilizzate sono molto semplici: uso di marchi con il suffisso “eco”, uso del verde come colore dominante, definire un prodotto “eco-friendly”.

Una delle conseguenze di questo tipo di attività è quella di essere una pratica che ostacola fortemente lo sviluppo di un’economia sostenibile, ma è anche da considerare il fatto che, di fronte a queste mistificazioni, il consumatore si sente ingannato e perde fiducia verso qualsiasi forma di comportamento sostenibile.

Come ci si può difendere da questo tipo di attività?

  • Prima di tutto bisogna imparare a guardare l’azienda nel suo complesso, cercare informazioni rispetto alle sue politiche di business e sostenibilità ambientale e come esse vengano applicate lungo tutta la filiera produttiva.
  • Un secondo step è quello di provare a cercare su internet qualche informazione scrivendo il nome dell’azienda e alcune parole chiave come sostenibilità o tutela ambientale.

Su Internet è possibile consultare numerosi siti che sono nati appositamente con lo scopo di aiutare i consumatori a individuare quelle aziende che sono veramente green e quelle che invece effettuano operazioni di greenwashing.

  • C’è il Greenwashing Index, che permette di pubblicare una valutazione di un prodotto o azienda e pubblicarla in modo tale da condividere informazioni a riguardo per promuovere la condivisione di informazioni.
  • Sulla base dello stesso sistema esiste un sito creato da Greenpeace dove si può trovare un breve elenco di quelle che sono le operazioni più frequenti di greenwashing:
    • focalizzare l’attenzione su un prodotto o una particolare politica aziendale “green”, quando in realtà il suo obiettivo principale non è sostenibile;
    • utilizzare una pubblicità e azioni di marketing mirate per ingigantire un risultato ambientale piccolo e distogliere l’attenzione da tutti gli altri risultati decisamente non sostenibili;
    • presentare la propria azienda come “green” ma realizzare operazioni di lobbying contro leggi ambientali esistenti o in corso di approvazione;
    • pubblicizzare un risultato “green” come se fosse una scelta voluta dall’azienda quando invece è il risultato di un’imposizione normativa.

TerraChoice ha realizzato il sito (“peccati del greenwashing”) che fa un elenco dei sette peccati capitali che commette chi cerca di rendere più verde un prodotto:

  1. trade off nascosto, cioè suggerire che un prodotto è “verde” basandosi solo su un insieme ristretto di attributi, spostando così l’attenzione da altri che hanno importanti implicazioni ambientali;
  2. mancanza di prove, ovvero un’affermazione ambientale che non può essere suffragata da informazioni di supporto facilmente accessibili o da un’affidabile certificazione da parte di terzi;
  3. vaghezza, quando le indicazioni sulle caratteristiche del prodotto sono così mal definite o così generiche che il loro vero significato è suscettibile di essere frainteso da parte del consumatore;
  4. falsa etichetta, in altre parole un prodotto che, attraverso parole o immagini, vanta certificazioni di terze parti che in realtà sono inesistenti o contraffatte;
  5. irrilevanza, ovvero affermazioni ambientali che possono essere veritiere, ma non sono importanti o utili per i consumatori alla ricerca di prodotti ambientalmente preferibili;
  6. minore dei mali, un’indicazione che può essere vera per la specifica categoria di prodotto, ma che rischia di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori della categoria nel suo complesso;
  7. falsità, ovvero asserzioni ambientali che sono semplicemente false.

Inoltre, esistono anche altri due siti: GoodGuide, formulato dal Mit, con la classificazione di numerosi prodotti secondo parametri di impatto sociale e ambientale e salutare, e Green Wikia che si basa sullo scambio di informazioni green tra tutti gli utenti.

Azioni di contrasto alle attività di greenwashing in Italia e nel mondo

La Commisione Europea ha effettuato un’indagine condotta su ventotto stati membri che ha coinvolto un campione di 25.568 persone di diverse estrazioni sociali e differenti fasce di età; questa indagine ha permesso di scoprire che le tematiche ambientali hanno un elevato impatto sul consumatore e che ben il 77% sarebbe disposto a comprare prodotti eco-compatibili, tuttavia la confusione, la mancanza di dati sicuri e verificabili aumenta lo scetticismo verso le aziende e verso prodotti di questo tipo. Proprio per queste ragioni è necessario tutelare il consumatore attraverso leggi e normative che impediscano alle aziende qualsiasi tipo di operazione di greenwashing.

In Gran Bretagna è stato chiesto al Consorzio dell’Olio di Palma Malese di ritirare l’annuncio che definiva il prodotto “un regalo dalla natura, un regalo per la vita, che aiuta il pianeta a respirare e genera sostenibilità”, poiché ritenuto ingannevole.

In America la Commissione Federale del Commercio (FTC) ha definito severe linee guida contro i posizionamenti ambientali falsi e ingannevoli nella pubblicità.

In Australia sono state varate sanzioni fino a 1,1 milioni di dollari per punire le aziende che comunicano comportamenti ambientali che non corrispondono a verità.

In Norvegia il governo ha vietato all’industria automobilistica forme di pubblicità comparativa sui temi ambientali.

In Italia la pratica è all’attenzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in quanto si tratta di casi di pubblicità ingannevole. Una delle prime pronunce di condanna relative al greenwashing  fu contro la Snam per il suo slogan “Il metano è natura” nel 1996. Ci furono poi altre sentenze, come quelle contro l’acqua minerale San Benedetto e Ferrarelle, o contro la Coca Cola.

Frenare il greenwashing e controllare i “green claim”

Dal 27 marzo 2014, è entrato in vigore un nuovo articolo del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, precisamente il numero 12, (“Tutela ambientale”) che frena il greenwashing e controlla i “green claim”, ovvero i messaggi pubblicitari che contengono rivendicazioni ambientali.

Questa nuova norma impone standard precisi di correttezza, in modo tale che gli slogan ecologici non diventino frasi di uso comune, ovvero prive di un significato concreto ai fini della caratterizzazione e della differenziazione dei prodotti.

L’introduzione della norma arriva dopo la richiesta che UPA (organismo associativo che riunisce le più importanti e prestigiose aziende industriali, commerciali e di servizi che investono in pubblicità e in comunicazione) e Fondazione Sodalitas (la prima realtà a promuovere la Sostenibilità d’Impresa in Italia) avevano rivolto allo IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, che ha dato parere positivo.

Il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, in vigore dall’8 marzo 2017, al Titolo I, regole di comportamento, art 12, Tutela dell’ambiente naturale, afferma che “la comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.

Quindi, possiamo dire che dal punto di vista giuridico la tutela del consumatore comincia ad essere effettiva.

Per calcolare l’impatto ambientale di un prodotto è necessario prendere in considerazione il suo ciclo di vita per intero: dal reperimento delle materie prime, al trasporto, al packaging, fino allo smaltimento.

Leggi e normative sono fondamentali per tutelare il consumatore e per impedire alle aziende di lucrare sulla base di un inganno, ma è fondamentale che il consumatore per primo sia attento e informato, perché è proprio lui che attraverso la sua domanda di beni e i suoi acquisti può influenzare il mercato e rendersi responsabile di un cambiamento concreto.

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