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La Grande Ungheria, “La squadra spezzata” di Bolognini

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Ungheria calcio squadra

“Un mantra, un autentico mantra. Grosics, Buzanszky, Lorant, Lantos, Bozsik, Zakarias, Budai, Kocsis, Hidegkuti, Puskas, Czibor. Ogni ungherese maschio che ha più di vent’anni probabilmente è in grado di dirvela in qualsiasi momento”. Se siete appassionati di storytelling calcistico, non potete non aver riconosciuto l’inconfondibile stile di Federico Buffa durante la narrazione della storia di Ferenc Puskas e della grande Ungheria, l’Aranycsapat, degli anni ’50. Quando parliamo di squadre che hanno innovato il mondo di giocare a calcio, non c’è dubbio che una delle formazioni più originali che hanno segnato il tempo è proprio l’undici magiaro capitanato da Puskas insieme all’altra grande squadra del secolo, l’Olanda di Cruyff, entrambe sconfitte in finale dalla Germania Ovest rispettivamente nel 1954 e nel 1974. Ma l’Ungheria è anche la squadra che è passata attraverso la Rivoluzione del 1956 e che ha vissuto numerose vicissitudini sia personali che collettive. Uno dei libri che più ha messo in evidenza il rapporto tra calcio e società ungherese degli anni ’50 con una spiccata propensione all’analisi sociale e culturale è il volume di Luigi Bolognini, La squadra spezzata (66thand2nd, 2016).

L’Ungheria negli anni ’50 vista dal protagonista Gabor

Tramite gli occhi del giovanissimo protagonista, Gabor, hai deciso di narrare una storia che intreccia calcio, storia e politica. Volevo chiederti come mai questa particolare scelta narrativa e se non ti ha forse ispirato, per il nome del personaggio principale, la famosa foto di Gábor Deák, il ragazzo quindicenne immortalato da Epoca?

Il libro nasce come un saggio sulla Nazionale ungherese quando mi accorsi che non ne era mai stato scritto uno in Italia. Presto mi fu chiaro che dovevo scrivere anche di politica: primo perché quella squadra era creazione e simbolo del regime filo-sovietico; secondo perché la sua epopea finì definitivamente con la rivoluzione del 23 ottobre 1956. Nella gastronomia e nei saggi, mescolare carne e pesce è tremendo mentre può avere un senso nei romanzi perché lì si narra la vita. Ed ecco nato il romanzo. Mi serviva poi che il protagonista, cioè colui che simboleggiasse illusioni e delusioni del popolo ungherese, fosse un bambino, proprio perché un bambino è più facile da illudere e da deludere.

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Una drammatica immagine dei giorni della rivolta del 1956 a Budapest

La sua crescita nei sette anni del libro è proprio il passaggio da bambino a ragazzetto, anni di presa di coscienza, di apertura degli occhi sul mondo. Per il nome no, è un caso. Gábor, in ungherese significa Gabriele, che è il primo nome di mio padre e il secondo mio. Così come Tuchtan, il cognome, era quello della famiglia della mia nonna paterna. Suo padre, il mio bisnonno, nacque a Budapest, anche se non era ungherese, ma proprio austroungarico: girò varie regioni dell’impero vivendo anche a Port Said e Fiume. Ho voluto anche fare un omaggio alle mie radici: quando camminavo per Budapest ho cercato di immaginare il bisnonno Romano passeggiare nelle stesse strade. Gábor Deák ha colpito anche me: quella foto mi ha aperto molte suggestioni e un po’ l’ho usata per immaginarmi il mio Gábor ma come si chiamasse il ragazzo l’ho scoperto dopo.

Nelle tue pagine s’affaccia una tesi interessante secondo la quale una delle origini dei fatti rivoluzionari del 1956 potrebbe esser fatta risalire alla clamorosa sconfitta mondiale a Berna nel 1954 contro la Germania Ovest.

Una tesi, appunto. Ed è un altro dei motivi per cui ho scelto un romanzo, per essere meno vincolato all’obiettività dello storico. Sia chiaro, tutto quel che racconto nel libro è vero ma i ragionamenti sono miei. Un dato di fatto c’è: a Budapest, la prima rivolta al regime – seppure durata una notte – avvenne la sera del 4 luglio 1954 al termine della finale di Coppa Rimet persa dall’ Ungheria. La gente assalì la sede della radio ufficiale e del partito, ci furono dei tafferugli ma senza vittime. Il ragionamento fu: “Siete così incapaci che non siete neanche stati capaci di far vincere il Mondiale alla squadra più forte del mondo”. Da lì iniziò il malcontento che, due anni dopo, sarebbe sfociato nella rivoluzione. Cosa sarebbe successo se l’ Ungheria avesse vinto il Mondiale? Forse non sarebbe scoppiata la rivoluzione, o sarebbe scoppiata più tardi. Manca la controprova. Di sicuro colpisce un fatto: il regime, grigio, corrotto e incapace, levava il panis dalla bocca degli ungheresi. Che protestarono però solo quando gli vennero tolti i circenses.

La “Squadra d’oro”, simbolo nazionale dell’Ungheria

Nelle intenzioni del regime comunista, L’Aranycsapat doveva essere una sorta di specchio delle virtù socialiste ma le intenzioni del Governo di Budapest in proposito erano evidenti: tentare di mantenere il controllo del potere offrendo al popolo il calcio dell’undici nazionale. Si può affermare che, alla bellezza del soccer espresso dalla squadra magiara, corrispondesse specularmente la durezza della realtà nella vita di tutti i giorni in Ungheria?

Si può e probabilmente si deve, anche perché la proporzionalità inversa, fino al fatidico 4 luglio 1954, era crescente: l’ Ungheria squadra giocava sempre meglio, l’ Ungheria nazione stava sempre peggio. Non a caso l’evento scatenante della prima ribellione fu la sconfitta nella Rimet. Anche se non dimenticherei pure l’aspetto esterno, propagandistico: quella Nazionale era l’orgoglio dell’ Ungheria nel mondo intero, dimostrava la potenza e il valore dello sport socialista, e la forza non solo del gioco ma anche dei risultati era tale che pure il mondo occidentale doveva riconoscerlo

Soffermiamo un momento la nostra attenzione su alcuni aspetti propriamente calcistici dell’Aranycsapat. Possiamo davvero dire che fu una squadra rivoluzionaria che giocava, anzi pensava un calcio mai visto prima. Ad esempio, Hidegkuti e l’invenzione del finto 9, i terzini che spingevano come delle vere e proprie ali, il portiere Grosics che anticipa nei tempi il saper giocare con i piedi dell’olandese Yongbloed e poi il talento infinito di Puskás, Kocsis e del centrocampista Bozsik, definito un Neeskens vent’anni prima. Possiamo affermare che l’Aranycsapat è il risultato finale di decenni di innovazioni del calcio danubiano?

Fino a un certo punto. Del calcio danubiano dei decenni precedenti, quello di Sindelar e Sarosi tanto per dirne due, aveva sicuramente la tecnica, la capacità di nascondere il pallone con un dribbling e la perizia in tiri imprevedibili. Non a caso negli oratori italiani, nello scorso secolo, il tiro d’esterno veniva detto “all’ungherese”. Rispetto alla tradizione però, l’ Ungheria fu innovativa per la tattica: bene o male le squadre precedenti giocavano come le altre, con il Sistema e col Metodo.

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La punta di diamante dell’Aranycsapat: Ferenc Puskas

Sebes cambiò tutto, inventandosi un sistema nuovissimo incentrato sul falso nueve (invenzione di Guardiola una decina d’anni fa, dicono gli ignoranti di calcio), sugli inserimenti dei due centrocampisti e sulla interscambiabilità delle ali, soprattutto di Czibor, un’ala regista come fu poi detto di Causio una ventina d’anni dopo. L’esempio è il gol del 3-1 ungherese a Wembley: Kocsis diede palla a destra a Budai che sulla stessa fascia lanciò per Czibor che allungò per Puskás. “Ocsi” si liberò di un avversario con una magia e stangò sul primo palo. Traducendo: il centravanti (che aveva l’8 sulla maglia, come un interno destro) aveva servito l’ala destra, che era sulla tre quarti, il quale aveva servito in profondità per l’ala sinistra (che però si trovava a destra). Il teorico “11” aveva fatto assist per l’interno sinistro, che a sua volta si trovava a destra, in area. Nessuno era dove teoricamente doveva essere. Eppure tutto funzionava perfettamente. Però non esagererei coi paragoni con il calcio totale olandese per un banale motivo: la differente rilevanza della componente fisico-atletica. Ovvero, Crujiff e soci correvano come dei disperati e grazie a questo riuscivano a scambiarsi di posizione, l’Aranycsapat correva piuttosto poco, in primis Puskas per ovvi motivi di stazza. Però erano tutti dove dovevano essere, segno dell’importanza dell’allenatore e, soprattutto, era la palla a correre, grazie alla tecnica. Anche per questo, cioè per l’irripetibilità di Puskás, Boszik e compagni, gli schemi tattici di quella squadra non furono ripetuti da nessuno, né ai tempi né dopo, fino all’idea del falso nueve.

Hai delle novità editoriali o iniziative culturali in cantiere, Luigi?

Il lavoro quotidiano mi assorbe già abbastanza. Ho una gran voglia di scrivere un nuovo libro, ma non tanto per farlo e quindi aspetterò serenamente un’idea che mi convinca se mai arriverà. Posso però dire che nella nuova edizione dei Quaderni dell’Arcimatto, pubblicazione annuale dedicata a Gianni Brera edita da FuoriOnda, in uscita a febbraio, comparirà un mio saggio su come il grande giornalista sportivo raccontò la Grande Ungheria.

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