Fino agli anni Quaranta l’Italia era seconda nella produzione mondiale di canapa dopo la Russia, e prima per qualità e selezione delle specie vegetali e genetiche. Fino all’arrivo delle sigarette americane, nelle zone rurali più povere la cannabis si utilizzava come sostituto del tabacco ed era normale comprare in farmacia estratti e sigarette di canapa indiana per curare i soggetti asmatici. Poi qualcosa si inceppò, e così come tante altre splendide cose, importammo dall’America anche i frutti del proibizionismo. La canapa divenne sinonimo di “droga”. Smise perfino di chiamarsi con il suo vero nome e diventò “marijuana”.
Anche in America infatti quello della canapa era sempre stato un mercato florido. Le piantagioni rifornivano con regolarità il mercato tessile, alimentare e della carta. La Dichiarazione d’Indipendenza fu scritta su carta di canapa, tanto per dire. Con la rivoluzione messicana degli anni ’10 e il conseguente flusso migratorio verso gli Stati Uniti si innescò però un meccanismo ben noto: si cominciò ad accusare i messicani e in generale gli immigrati ispanici e afro-americani, di ogni possibile crimine. Gli USA piombarono in un periodo buio, quello del proibizionismo, e nel calderone, insieme all’alcool, finì anche la cannabis, che venne associata al crimine, al degrado, alla povertà, alle sottoculture (come quella del jazz) e al decadimento degli scintillanti valori morali dell’americano medio.
Il direttore del Federal Bureau of Narcotics, Harry J. Anslinger, promosse un’enorme campagna di disinformazione e propaganda attraverso manifesti, libri e film eccessivi e spaventosi, con l’obiettivo di terrorizzare le famiglie e i giovani. I consumatori di questa sostanza venivano dipinti come spietati omicidi, degenerati, psicopatici e prostitute.
“The first effect is sudden, violent, uncontrollable laughter; then come dangerous hallucinations – space expands – time slows down, almost stands still….fixed ideas come next, conjuring up monstrous extravagances – followed by emotional disturbances, the total inability to direct thoughts, the loss of all power to resist physical emotions…leading finally to acts of shocking violence…ending often in incurable insanity!”
La campagna nacque ovviamente per motivi di interesse economico (l’industria della carta e quella tessile si stavano evolvendo verso nuovi mercati), ma la giustificazione per l’operazione passò per la sempre di gran moda questione razziale:
Negli Stati Uniti d’America ci sono centomila fumatori di marijuana. La maggior parte di loro sono negri, ispanici, filippini e artisti. La loro musica satanica, il jazz, lo swing, sono il risultato dell’uso di marijuana. La marijuana provoca nelle donne bianche il desiderio di intrattenere rapporti sessuali con negri, artisti e altri.[…]La prima ragione per mettere la marijuana fuori legge è il suo effetto sulle razze degenerate.[…]La marijuana porta al lavaggio del cervello pacifista e comunista. […] Gli spinelli inducono i negri a pensare che sono come gli uomini bianchi.
Nel 1937 il Marijuana Tax Act sancì il blocco definitivo alla coltivazione della canapa negli Stati Uniti e successivamente in gran parte del resto del mondo.
Reefer Madness, un film anti-marijuana che è quasi una parodia
Le vicende narrate in Reefer Madness ruotano attorno a Mae e Jack, una coppia di spacciatori che organizza festini a base di erba per studenti delle superiori. Anche la coppia di fidanzati Bill e Mary finiscono, chi prima chi dopo, a casa della coppia. Dopo aver fumato, Bill si concederà in un primo momento del vergognoso sesso prematrimoniale, e immediatamente dopo verrà coinvolto nell’omicidio accidentale della povera Mary, giunta all’appartamento per cercare il fidanzato traditore, e caduta nelle grinfie di tale Ralph, il quale passa le giornate a fumare ridendo su una poltrona, e che tenta di stuprarla. Nell’attesa della sentenza i sopravvissuti cadono in una spirale di violenza e omicidi da salotto, e il film si chiude con un suicidio e con la condanna dello squilibrato Ralph ad essere rinchiuso per sempre in un ospedale psichiatrico.
Il film (e più che altro il suo trailer) somiglia tanto a quelle improbabili parodie che girano sul web. Sprigiona una comicità surreale per lo spettatore di oggi. I dialoghi sono assurdi, lo stereotipo è portato al suo estremo. Nonostante lo scarso successo ai tempi della sua uscita, fu riesumato negli anni ‘70 dai promotori del National Organization for the Reform of Marijuana Laws dagli archivi in cui era stato dimenticato, per essere proiettato nelle università a favore della causa pro-marijuana, divenendo un classico del genere exploitation.
“Weird Orgies. Wild Parties. Unleashed Passions.”
Nonostante Reefer Madness costituisca il riferimento principale quando parliamo di isteria propagandistica anti-marijuana, molte altre pellicole furono prodotte con il medesimo intento. Già nel 1929 un piccolo film muto illustrava agli spettatori americani le tragiche conseguenze del consumo di cannabis: High on the range è la buffa storia di Dave, che trasforma il suo ranch nel teatro di un omicidio dopo aver fatto semplicemente qualche tiro da uno spinello.
Nel 1936, e cioè nello stesso anno in cui uscì Reefer Madness, il film Marihuana: the Devil’s weed pose l’accento sulla degenerazione sessuale (in particolare quella femminile) causata dall’utilizzo dall’ “erba del diavolo”. Il fatto che nel 1938 Marihuana sia stato ridistribuito dalla casa di produzione insieme a un corto intitolato How to Undress in Front of Your Husband ci dice davvero molto sul clima di puritanesimo e perbenismo del tempo.
In Assassin of youth del 1937 il reporter Art Brighton si infiltra in una banda di spacciatori di una piccola città per smascherare un caso di false eredità e morti sospette (dovute, guarda un po’, alla marijuana). In un momento quasi metacinematografico Art si documenta sulla questione guardando un film di propaganda contro le droghe dal nome The Marijuana Menace, che illustra fra le altre cose come la parola hashish sia la radice della parola assassin (!).
Dopo dieci anni arrivò She Shoulda Said No! (1949). Il film racconta di una ragazza orfana che inizia a frequentare uno spacciatore. Per conquistare la sua cerchia di amici si fa convincere a fumare dell’erba a una festa. Ne diventa ovviamente dipendente e, oltre al suo lavoro, perde anche tutte le sue inibizioni, sessuali e non. L’aspetto più interessante del film è forse quello che riguarda la sua produzione: la star protagonista, Lila Leeds, era stata infatti arrestata l’anno precedente insieme al suo fidanzato, il ben più famoso Robert Mitchum, per consumo di erba e possesso di stupefacenti. Dopo l’accaduto fu difficile per Lila trovare nuovamente un lavoro. L’unica parte che le venne offerta fu questa. Accettò affermando che desiderava dare un esempio alle nuove generazioni per scoraggiarle dal fare uso di droghe; la verità, confessata anni dopo, era che quella fu l’unica proposta che le arrivò dopo lo scandalo.
Tutti questi film non ebbero un grande ritorno in termini di pubblico, ma sono lentamente diventati dei classici nello strano e democratico universo dei b-movie. Sicuramente strappano oggi ben più di un sorriso. Certo è interessante riflettere, in questo particolare momento storico, in cui anche in Italia si ragiona sulla reintroduzione della canapa sul mercato, su come venga costruita una campagna di demonizzazione di una sostanza quando entrano in campo interessi politici e meccanismi economici complessi.