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La Spintria: moneta degli antichi bordelli romani

La spintria è un gettone, coniato in rame, bronzo, stagno o piombo (raramente in argento), che nella maggior parte dei casi veniva usato nelle lupanare al posto della moneta per pagare le prestazioni sessuali. Su un lato era indicato il tipo di prestazione (raffigurata esplicitamente sul gettone) e, secondo alcune teorie, sull’altra faccia del gettone era indicato il prezzo espresso in Assi. Sembra che nei secoli le spintriae siano state usate anche per altri scopi, ad esempio come gettoni di ingresso per occasioni ludiche riservate a piccoli gruppi e in questo caso il numero poteva corrispondere  ad un posto assegnato, o addirittura come gettoni per giochi da tavola e il numero poteva corrispondere a quello di una casella. Dopo la caduta dell’impero romano, proprio per la loro particolarità, vennero coniate per il divertimento dei nobili e si ha testimonianza della loro circolazione in varie corti imperiali europee. Attualmente si conoscono diverse serie di spintriae che sono presenti nei più grandi musei del mondo, compresi i musei Vaticani, un primo catalogo delle spintriae riporta quasi quattrocento gettoni diversi, i più antichi sono stati trovati negli scavi degli edifici (anche di epoca repubblicana) usati come lupanare. Le lupanare erano i luoghi in cui le prostitute (le lupe) esercitavano la loro attività. Il nome “lupa” deriva dall’ululato che le prostitute emettevano per attirare i loro clienti, questo richiamo ha condizionato anche le leggende intorno alla fondazione di Roma e a Romolo e Remo.  Secondo la leggenda Rea Silvia abbandonò la cesta con i due gemelli sulla riva del fiume Velabro, un affluente del Tevere che scorreva nei pressi della Rupe Tarpea e lungo le cui sponde le “lupe” esercitavano la loro professione. È molto probabile che sia stata una prostituta e non una femmina di lupo a salvare e a prendersi cura dei due gemelli.

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Il Velabro qualche secolo dopo divenne l’asse centrale del sistema fognario romano, il fiume venne incanalato e coperto, il suo sbocco sul Tevere marmorizzato è la “Cloaca Massima” ed  è ancora visibile sulle moderne banchine del Tevere all’altezza del ponte Palatino. La prostituzione nell’antichità, almeno fino all’arrivo del cristianesimo, era moralmente accettata, i clienti non erano  certamente discriminati ed anche le signore godevano di una buona reputazione. A Pompei erano attivi oltre 25 bordelli, a Roma più del doppio. Solo con il cristianesimo i bordelli vennero relegati in luoghi nascosti, anche se il numero delle prestazioni e gli importi degli “affari” legati al settore sono sempre cresciuti. Tascio Cecilio Cipriano (210d.C. – 258d.C.) che diventerà vescovo di Costantinopoli si lamentava perché:<…per raggiungere il Colosseo occorreva passare per il postribolo…> . In effetti nella Roma Imperiale molti erano i bordelli in cui anche le donne libere (le potenti matrone romane) affittavano stanze nelle quali esercitavano il meretricio e non sempre per motivi economici. Giovenale racconta che Valeria Messalina (25d.C. – 48d.C.) figlia del console Marco Valerio Messalla e di  Domizia Lepida, costretta dall’imperatore Caligola a sposare a 14 anni il cugino della madre che ne aveva più di 50, si prostituisse con lo pseudonimo di Lycisca. Giovenale  ci ricorda che in quel periodo un cinquantenne era veramente vecchio e scrive che :< … esausta per gli amplessi, ma mai soddisfatta, rincasava: con le guance orribilmente annerite e deturpata dalla fuliggine delle lampade, portava la puzza di bordello nel letto dell’imperatore…> . Anche l’imperatore Caligola possedeva un lupanare in cui lavoravano molte delle sue schiave.  È  interessante ricordare  che la prostituzione e le lupanare erano ben precedenti al periodo Augusteo, è spesso citato l’aneddoto attribuito a Catone il Censore (234 a.C. -149 a.C.) il quale vedendo uscire un giovane da un bordello lo lodò per il modo così tranquillo e sensato con cui dava sfogo ai suoi bisogni, pare però che tornando ad incontrare il giovane per diverse volte nello stesso luogo gli abbia detto:< Ti ho lodato perché vieni qui a sfogare i tuoi istinti, non certo perché tu abiti qui>, quindi anche Catone non condannava la prostituzione. Anche la cattolicissima Italia ha organizzato e garantito i bordelli come “servizio pubblico” fino al 4 marzo 1958, quando una legge ispirata dalla senatrice socialista Lina Merlin li chiuse (almeno come servizio pubblico).

Tornando alle spintriae, come dicevo alcuni sono convinti che il numero riportato sulla moneta rappresentasse il prezzo della prestazione; la ragione sta nel fatto che la maggior parte delle spintriae trovate riportano numeri compresi tra 1 e 16, questo fatto assieme alla lettera A che qualche volta compare sullo stesso lato del numero ha fatto pensare ad un riferimento economico: in particolare alcosto inassi della prestazione.
Al tempo di Augusto occorrevano 16 assi per un denario. Le prostitute non venivano pagate molto e quindi potrebbe essere credibile il limite del denario come compenso per le loro attività.  In alcuni scavi sono  state trovate spintriae con il numero 25 e il numero 17, ma questi sono stati considerati errori di conio.  Io non  credo sia così, potrebbe essere che lupanare diverse usassero le spintriae in modo diverso. A favore di questa teoria c’è il fatto che prima di Augusto occorrevano solo 10 assi per un denario. È anche importante un’altra considerazione: le signore avevano alcune specialità che reclamizzavano con iscrizioni e con immagini specifiche delle prestazioni. Non tutte le signore facevano le stesse cose, è anche importante ricordare che molte non parlavano la stessa lingua dei loro clienti: erano schiave che provenivano da lontane provincie, il numero poteva rappresentare il loro nome d’arte, quello che ricordava anche la loro particolare abilità. È anche vero che le prestazioni sessuali avevano prezzi molto bassi, questo per l’enorme concorrenza: anche gli osti, oltre al fieno per i muli e i cavalli e al cibo ed al riparo per i viaggiatori, offrivano il servizio in camera delle ragazze.  Riporto a prova di quanto affermo un battibecco  che è stato trovato inciso su un bassorilievo del II secolo a.C. rinvenuto dagli archeologi  in un’osteria romana tra l’Aquila e Isernia.

Cliente: «Padrone, il conto!». Oste: «Mi devi un dinario e un asse: ho contato quattro assi per il vino, un asse per il pane e due per il companatico».

Cliente: «Va bene». Oste: «Per la ragazza, sono otto assi».

Cliente: «Anche questo è conveniente». Oste: «Due assi sono per il fieno della tua mula».

Cliente: «Questa mula mi rovinerà!».

Per quanto ho riportato sono arrivato alla conclusione che spesso, ma non sempre, il numero sulla spintria rappresentasse l’importo della prestazione.

Nei quasi due anni che sono passati da quando ho scritto le precedenti pagine sono riuscito a trovare le quattro spintriae che mancavano per completare la serie di sedici. Secondo il dotto studio del dott. Alberto Campana, studio che si può leggere gratuitamente in internet e che, se vi interessa l’argomento, vi consiglio di leggere all’indirizzo web.

Quella che ho presentato è una delle decine di serie fino ad ora scoperte (sono quasi 400 gli esemplari già catalogati). Non sono uno storico ma solo un curioso e così non entrerò nelle discussioni sul significato del numero coniato sul lato B della spintria, se non per far notare agli amici a cui mi rivolgo che non è credibile, proprio per il senso pratico dei romani, che la prestazione rappresentata  sulla spintria che riporta il numero 16 venisse pagata il doppio di  quella rappresentata sulla spintria con il numero 8. Potrei esagerare spostando l’esempio sulla prestazione della spintria 1 confrontata con la prestazione della spintria 10: non è ragionevole considerare di valore tanto diverso le due prestazioni.

È estremamente interessante leggere gli studi pubblicati sulle spintrae, si capisce quanto i moderni tabù sociali o religiosi possano essere condizionanti, ed anche quanto certi “ricercatori” siano più interessati a dimostrare loro teorie che a prendere in considerazione i fatti. Riporto con piacere le immagini delle nuove spintriae appena acquisite che rafforzano la mia opinione: nei secoli non c’è stato un uso esclusivo delle spintrae e quindi è impossibile attribuire un significato univoco al numero riportato sul retro del conio. Un ultimo pensiero va doverosamente riservato a quegli studiosi che con fervida fantasia, e una discreta faccia tosta, hanno dichiarato (e continuano a dichiarare) “errori di conio” le spintriae con numeri o simboli non inscrivibili nelle proprie teorie. Con il loro esempio possono aiutarci a non ripetere i loro errori: a non considerare “sbagliato” quello che non capiamo.

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