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Il tè nel mondo, i riti e le abitudini

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tè nel mondo

Girando per il mondo ho potuto verificare di persona le abitudini degli abitanti di diverse nazioni legate al tè. Ho condiviso con persone incontrate per caso le loro diete alimentari, assaggiato le loro bevande nazionali, spesso sono stato invitato a bere i loro . Ho imparato e mi sono fatto raccontare i significati dati da persone di posti diversi ai modi di preparare e gustare un tè. Cercherò di raccontarvi quello che ho saputo da questi tanti amici. Una delle spinte che mi hanno portato a viaggiare  è quella di conoscere, imparare  a vedere  il mondo da altri punti di vista, attraverso gli occhi e le abitudini degli altri, conoscere i rituali e le frasi ben auguranti, quali sono i comportamenti sociali apprezzati e quali invece vengono considerati volgari. È importante preparare bene il viaggio, oltre alla geografia occorre studiare la storia, ma anche la letteratura che spesso  è in grado di far conoscere l’anima di un popolo.

Il tè nel mondo. Iniziamo dalla Russia

samovar
Samovar deriva dal Russo “Sa Mo Var” con il significato “che bolle da sè”

Proprio partendo dalla letteratura è possibile conoscere l’anima del popolo russo. Nei grandi romanzi russi spesso si può leggere dei Samovar in argento dei nobili di corte, e dei grandi Samovar presenti ovunque. In uno dei miei molti viaggi nella allora Unione Sovietica, mi capitò di perdere il treno che avevo prenotato: venivamo da Varsavia ed eravamo diretti a Leningrado (San Pietroburgo), aspettavamo una coincidenza alla frontiera tra la Polonia e l’Unione Sovietica (vicino Brest), era il 1978, e da poco era stata pubblicata dalla casa editrice Einaudi una ristampa del volume della De Clementi, “Amedeo Bordiga”, e io lo stavo leggendo. Una delle guardie di frontiera mi chiese in inglese chi fosse Amedeo Bordiga, gli risposi che era stato il primo segretario del Partito Comunista Italiano, la risposta della guardia fu categorica: “No, era Antonio Gramsci”. A quel punto gli consigliai di chiamare l’ufficio politico per sapere chi avesse ragione. Rimase colpito, ma ligio alle norme che proibivano di introdurre testi “sovversivi”, fece scendere dal treno il nostro piccolo gruppo (eravamo in nove iscritti a Italia-U.R.S.S.). Dopo mezz’ora arrivò la conferma a quello che dicevo, e le scuse dell’ufficio politico, ma nel frattempo il treno era partito. Da italiani saltammo sul primo treno diretto a Minsk, ci aspettavano due giorni in treno per arrivare a Leningrado. Sul convoglio che avevamo preso c’era solo una carrozza letto, le altre erano in legno e anche i sedili lo erano, lasciammo alle signore del gruppo i letti e assieme ad altri due “giovani” ci accomodammo sulle panche di legno: ricordo di aver dormito a due metri e mezzo d’altezza, sulla retina porta valige. Il vagone, che sembrava uscito da “Guerra e pace”, aveva, vicino ai servizi igienici,  un samovar in ghisa (riscaldato a carbone) alto un metro, e sopra c’era una teiera in vetro con un concentrato di tè nero come la pece. Nel nostro scompartimento c’erano anche altri viaggiatori tra cui due biondissime ragazzine bielorusse (alte un metro e ottanta, ma che non avevano più di quindici anni) che ci adottarono e si samovar tè in russiadivertirono a coccolarci e a cantarci canzoni russe. La mattina successiva a svegliarmi fu l’aroma buonissimo che riempiva tutta la cabina, veniva da sei bicchieri di vetro riempiti fino quasi all’orlo da una bevanda scura che profumava di tè. Io e un mio amico ci avventammo su quei bicchieri, erano inseriti in sottobicchieri metallici in argentana, che isolavano il vetro. Al primo sorso capimmo la ragione del sottobicchiere, la bevanda era rovente e amara, ma aveva un aroma meraviglioso. C’erano anche dei mattoncini di zucchero e noi provammo a farli sciogliere nel tè, senza riuscirci. Le ragazzine ridevano divertite  e ci mostrarono cosa fare: i mattoncini (durissimi e quasi insolubili) dovevano essere tenuti fra i denti mentre si sorseggiava il liquido rovente che passandoci sopra si addolciva quanto bastava. Ci incuriosimmo su questa strana usanza e ci facemmo spiegare come era fatto quel tè così profumato:  il capo vagone versava nel bicchiere, reso rovente dall’esser stato sciacquato con l’acqua calda, un paio di centimetri di concentrato di tè, poi versava acqua bollente dal samovar fino a riempire il bicchiere.  In perfetto orario arrivammo alla stazione di Leningrado. L’ufficio responsabile del ritardo che ci aveva fatto perdere il treno aveva mandato un funzionario che, per risarcire il gruppo per il disagio patito, ci offrì di soggiornare all’hotel Astoria (quello dove voleva soggiornare Hitler dopo aver conquistato l’URSS). Le maniglie delle porte delle stanze avrebbero dovuto essere d’oro, ma invece erano solo dorate (forse quelle originali erano state portate in un museo), nella sala da tè dell’Astoria le teiere erano di vero argento e anche i samovar (questa volta elettrici) sembravano esserlo.

La regola per preparare il tè alla russa era però la stessa: un terzo di concentrato di tè, due terzi di acqua bollente.  Nella sala da tè le mogli dei funzionari del partito e quelle dei gerarchi militari si riunivano a spettegolare davanti a un vassoio di pasticcini, sorseggiando un tè nero fermentato, a cui a volte aggiungevano del latte; forse ora le cose sono cambiate, ma all’epoca il tè svolgeva una funzione di rito sociale che poteva essere usato anche per esibire privilegi.

Il tè in Cina

Qualche anno dopo, in Cina, ho avuto occasione di sperimentare dei meravigliosi tè verdi: ero in una delegazione che aveva la fortuna di incontrare i dignitari dei luoghi che stavamo visitando;  ad ogni visita, ogni volta che entravamo in una casa, ci offrivano una tazza di tè e questo accadeva in qualsiasi ora del giorno. I erano serviti in tazzine sottilissime di ceramica quasi trasparente, ed erano chiari e profumati, neppure una volta ci hanno offerto tè nero, ho poi saputo che i cinesi producevano il tè nero solo per i barbari (ossia per noi, i barbari dai grandi nasi, come ci chiamavano).  Anche le persone più umili, quando le incontravamo, ci offrivano un tè, ma a differenza dei dignitari (politici) usavano teiere in terracotta e bicchieri di vetro. Nei luoghi turistici erano in vendita, su dei tavolini traballanti,  bicchieri di tè chiari di varie gradazioni, coperti da pezzi di cartone. I “venditori” erano anziani che vestivano dignitosamente, per questo ho avuto il coraggio di assaggiare un paio di bicchieri di tè, l’ambiente era polveroso e poco igienico, ma è stata l’unica volta che ho assaggiato un vero tè bianco cinese (anticamente riservato ai funzionari imperiali).

Il tè in Africa

Un’amica del Corno d’Africa mi ha fatto conoscere il tè con il cardamomo: dopo aver preparato un bicchiere di tè fermentato molto caldo rompeva tre semi di cardamomo che lasciava un minuto nel bicchiere. In realtà avevo già bevuto questo tè nella kasbah a Casablanca, tutta turistica, sognando Humphrey Bogart e Ingrid Bergman.

Il tè nel triangolo d’oro

Mi rendo conto che potrei parlare ore delle mie esperienze, perciò  ho deciso di limitarmi ad altri due incontri  significativi: nel Triangolo d’Oro, alla frontiera con l’ex Birmania (ora Myanmar), un monaco buddista ci fece visitare un tempio che stava restaurando da solo con le sue mani, gli feci una sostanziosa offerta e lo pregai di ricordarmi nelle sue preghiere. Il monaco ci portò nella sua cella, una specie di casetta di tre metri per tre, collocata sopra una specie di piramide a tre metri dal suolo. In quel luogo, dopo averci fatto sedere a terra su un tappeto, ci offrì un tè e della frutta. In quel caso la paura fu tanta. La zona è infestata dalla zanzara dengue, e l’acqua non è proprio potabile. Il tè, versato in piccole tazze di porcellana, una specie di “lusso” in una realtà spartana, era di sapore morbido, aromatico, gradevole anche se non aveva nessun tipo di dolcificante. A mio parere in quell’occasione avvenne un vero miracolo, non ci capitò nulla! Non è poco, considerando che tutte le guide consigliano di evitare di assumere acqua ed altro in quel posto.

Il tè in Bangladesh

Come ultima esperienza voglio ricordare di aver bevuto (assieme ad Ornella) il tè preparato da un chiosco, nel distretto di  Shariatpur  (in Bangladesh): scoprimmo che lo facevano in una specie di negozietto a due isolati dall’albergo. Il proprietario aveva un secchio d’acqua da dove pescava un bicchiere su cui versava acqua calda (per disinfettarlo, in tutto aveva tre bicchieri che passavano di bocca in bocca) e poi, per pochissimi centesimi, riempiva il bicchiere di un tè nero, aromatico, ma amarognolo, forse lasciato troppo in infusione. Nella stessa zona, il giorno dopo Alì, uno dei  nostri accompagnatori, ci proibì di bere quel tè, poi, dopo averci condotto in un locale che vendeva camicie da uomo, ci chiese di aspettare, sotto lo sguardo incuriosito dei frequentatori del mercato. Dopo venti minuti lo vedemmo tornare con due bicchieri nuovi (era andato a comprarli per noi) pieni di un ormai quasi freddo, sicuramente fermentato, ma ben fatto e di buona qualità.  Non abbiamo ripetuto l’esperienza in altre città che abbiamo visitato. A Dacca, nella stanza dell’albergo dove consumavamo la prima colazione, il tè che ci portavano era ottenuto con bustine filtro. Da queste poche righe anche voi potrete verificare che, nella società reale, il tè ha un tipo di degustazione diversa da quella che vantano le associazioni di amatori. L’importante è che piaccia! Ai miei lettori anticipo che il prossimo articolo sarà sulla chimica e la farmacologia del tè.

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Dopo aver chiuso alcune delle mie vite precedenti, quella sindacale (da Presidente FIARC Confesercenti a Roma), quella politica (membro effettivo Commissione Centrale Ruoli presso il Ministero del Lavoro), quella da redattore e autore nel mondo della carta stampata (Acquari & Natura, L’acquario ideale, Le mie prime venti Aloe, Piante Grasse), quella da tecnologo nell’elettronica industriale, quella da segretario nazionale dell’Associazione Italiana Amatori delle piante Succulente (AIAS), quella da libraio (Einaudi) a San Lorenzo a Roma, quella di formatore e consulente (master PNL), finalmente da alcuni anni posso dedicarmi alle mie passioni: lo studio e il restauro di orologi antichi (con lavori citati anche in Wikipedia), l’allevamento e lo studio di tartarughe terrestri, la coltivazione di qualche centinaio di piante, la partecipazione alle attività di associazioni naturaliste scientifiche (ERPISA, bibliotecario SRSN), l’alfabetizzazione del WEB con la lotta alle bufale e alle “credenze” prive di ogni fondamento che imperversano in rete, oltre allo studio e alla diffusione della cultura ambientale. luciano@einaudiroma.it

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