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Le Biblioteche a Roma nell’antichità

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Cosa c’è di meglio di un piacevole pomeriggio nel silenzio di una biblioteca? Ce lo chiediamo noi, ma potevano chiederselo anche i nostri antichi padri, perché di biblioteche a Roma ce n’erano e tante. Le loro vicende sono specchio della storia del mondo antico. Con una serie di articoli, cercheremo di saperne qualcosa di più.

Biblioteche a Roma – una prima fase

Man mano che i domini di Roma si espandono, nel territorio del futuro impero vengono ricompresi anche centri di cultura greci e alessandrini, con le loro rispettive biblioteche. Nel II secolo a.C. generali aristocratici come Lucio Emilio Paolo iniziano a comprendere del loro bottino di guerra non solo ori e armi ma anche collezioni di testi. Lentamente, ma inevitabilmente, Roma inizia la sua trasformazione in centro di attività letteraria e culturale indipendente da quelli che ha assorbito. Le famiglie nobili hanno le loro biblioteche ma, quasi a prefigurare l’avvento di quelle pubbliche, personaggi aprono le propri collezioni private di rotoli a studiosi greci e a intellettuali romani. Il primo a compiere una scelta del genere è Lucullo. Abbiamo accennato qualche tempo fa alla Villa dei Papiri e alla sua biblioteca, perché già nel I secolo a.C. luoghi analoghi erano frequenti tra gli aristocratici romani: le biblioteche a Roma sorgevano nelle ville d’ozio dei suoi protagonisti, il summenzionato Lucullo ma anche Cicerone e Varrone possedevano collezioni preziose di testi. Per queste persone, lo scambio e l’acquisto dei rotoli aveva un valore non solo culturale, ma rafforzava i legami di classe e di fazione. In sostanza, era parte della loro identità.

Biblioteche a Roma – l’avvento dell’impero

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Ricostruzione della biblioteca di Celso.

Augusto diceva sempre di aver trovato una Roma di mattoni e averla resa una città di marmo. Sicuramente, il turbolento periodo che portò alla nascita del principato, coincise (non a caso) con un momento di spinta edilizia e di un rinnovato impegno civile, che si rifletteva sul piano  della produzione culturale. Le biblioteche a Roma aumentarono di numero e iniziarono ad essere pubbliche, nonostante il collezionismo privato restasse importante. L’ambiente protetto e professionale di una biblioteca pubblica diventava sempre più garante per la sopravvivenza di un’opera: scegliendo quali includere in questo contesto, il patrono  – fosse l’imperatore nell’Urbe o un notabile nelle altre città – esprimeva di fatto un’approvazione ufficiale del testo, rendendolo quindi meritevole di protezione e copia. Scegliendola, garantiva la durata nel tempo dell’opera ma, di fatto, con una selezione che era di fatto anche un’attribuzione di valore e orientava la produzione futura. Perché le opere che si trovavano nelle biblioteche a Roma non sarebbero state facilmente dimenticate. Per converso, bandire o escludere dalle biblioteche pubbliche di Roma alcune opere, le spingeva un passo di più verso l’oblio. Questa prassi fu iniziata da Augusto che, ritenendo poco dignitose le opere giovanili Cesare (e troppo dirette le sue epistole), suo padre adottivo, le escludere dal suo bibliotecario di fiducia, Pompeo Macro; così come pare che le opere dell’esiliato Ovidio furono lasciate fuori dalla biblioteca di Pollione nell’Atrium Libertatis. Il favore o lo sfavore del principe era espresso da questo gesto assolutamente non violento ma che, in un mondo di fragile papiro o pergamena il cui contenuto era copiato a mano, poteva portare all’eterno oblio. E nelle biblioteche a Roma si determinava chi, invece, avrebbe meritato l’eterno ricordo.

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